La mattina in uno dei quartieri di Madrid ha il cielo azzurro come non lo vedo da molto tempo. Nessuna nuvola, tutto spazzato via dal vento che modera il caldo come se fossimo su un’isola. Guardo la gente che comincia la domenica alle dodici con il café con leche e mi chiedo se il ciclismo sia davvero una cura o soltanto l’alternativa alla disperazione. Certi giorni non so più se voglio la sicura quiete o l’incerta tempesta.

Il Palacio de Cibeles svetta bianco e irreale nel pomeriggio, sfondo settecentesco del glorioso ultimo atto. Questa città mi fa pensare a una quinta teatrale, la bellezza che si apre come un sipario sull’infinito. La luce – che è tutto – filtra dalla Gran Via illuminando gli alti palazzi bianchi come conchiglie. Sopra, i terrazzi dominano il brulicare di gente che sale e scende dalla metro, che si affolla alle transenne. I giorni delle prove contro il tempo ti fanno pensare che le lancette siano solo un concetto astratto. I minuti diventano ore, l’attesa è una sigaretta che non si consuma mai. Ma ogni giorno ha la sua fine. Così dall’alto si scrive il verdetto della Roja, un breve boato, una saetta rossa.
Chiuse le danze.

Il sole è sempre più basso, più dolce. L’aria della sera porta i coriandoli dorati, le scintille dietro Primoz che saluta con più malinconia che entusiasmo. Gli occhi sembrano trasparenti persino da metri di distanza, come di chi ha pianto, come di chi ha poche parole per spiegare quanto si possa amare una corsa. Tanto da farne il perenne riscatto, il terreno di gioco dove tornare a fare sul serio. Spaccati e poi di nuovo interi. Così vanno le cose.

Il palazzo ora ha le sfumature del mare al tramonto. Solo manca l’acqua a Madrid, mi ha detto un’amica. Ecco là dietro l’oceano in una sera romantica, con il vento che fa rotolare le foglie di un autunno che sembra ancora lontano.
Dietro alla fontana che si illumina lentamente di rosso, lampeggiano le luci blu delle macchine della guardia civil in fila lungo la Calle de Alcalá. Questa città chiedeva ancora tempo ma noi non ne riserviamo mai abbastanza per ciò che conta davvero.

Dietro i vetri dell’aeroporto, il sole sta per sorgere e penso a come sia possibile che qui le albe siano cosi vaste da volersi svegliare tutti i giorni per poterle vedere. Orizzonti infiniti, nessun ostacolo. Vivere altrove.
Sull’aereo lascio il posto a una signora che vuole stare vicino al suo compagno. Gli stringe la mano e si appoggia a lui, chiudendo gli occhi.
Perchè
diavolo
sto
piangendo
adesso?
L’aereo decolla, Madrid si capovolge, vedo solo il cielo.
Mi chiedo se mai finirà questa sensazione di non avere il pezzo centrale del puzzle.